Intervista pubblicata su www.mutamenti.ch a cura di Florinda Balli.
La dottoressa Erica Francesca Poli è psichiatra, psicoterapeuta e counselor. Esercita inoltre come perito presso i tribunali di Milano, occupandosi quindi anche degli aspetti penali della psichiatria. Nel libro Anatomia della Guarigione (Anima edizioni) la dottoressa Poli descrive il proprio metodo originale di terapia, un metodo che comprende molti strumenti di cui alcuni legati alle neuroscienze e altri alla medicina energetica. Il tema della guarigione è particolarmente attuale di questi tempi in cui, nonostante la qualità delle cure mediche, molte persone, specie a partire da una certa età, diventano consumatori di medicinali a vita. Ne abbiamo parlato con la dottoressa Poli.
Il suo libro è dedicato al tema della guarigione. Che significato ha per lei questa parola? In che cosa differisce dal significato che le dà la psichiatria classica?
Il tema della guarigione è centrale per la nuova medicina integrata. Il paradigma classico della medicina, e quindi anche della psichiatria, è molto centrato sul tema della malattia: il medico deve conoscere tutti i tipi di patologia, deve studiare i pazienti e cercare di capire perché si sono ammalati. Ma nelle facoltà di medicina non vi è nessun corso sul perché si guarisce, né sul perché i sani restano sani. Se si studia il caso di dieci persone esposte a un virus, si studierà quelle che si sono ammalate, non quelle che sono rimaste sane. Gli studi di medicina comprendono lo studio di tutti i vari sistemi e apparati, dalla cardiologia, all’oftalmologia, ma non vi è un corso dedicato alla guarigione. E questo è paradossale.
Personalmente, anche se ho fatto tutto l’iter classico di studi e quindi ho frequentato la facoltà di medicina, specializzandomi poi in psichiatria, ero attratta da questo tipo di domande e non trovavo risposte. Ciò nonostante ho amato molto gli studi di medicina e amo ancora l’approccio scientifico che non ho mai abbandonato e che penso non abbandonerò mai. Tuttavia, durante gli studi, dato che lavoravo al Policlinico che si trova vicino a quella che a quei tempi era la Libreria Esoterica e che oggi si chiama Gruppo Anima, avevo preso l’abitudine, il pomeriggio, di prendere dei libri di medicina orientale, o di quella che oggi si chiama medicina alternativa. A dipendenza della clinica che studiavo il mattino, leggevo testi di medicina cinese sull’apparato cardiocircolatorio, di ginecologia ayurvedica, o altro ancora. Mi sono fatta in pratica una doppia formazione, nel senso che la mattina studiavo le malattie e il pomeriggio le guarigioni.
A che conclusioni è giunta?
Siamo di fronte a due paradigmi, a due diversi modi di vedere che si possono benissimo integrare. La medicina convenzionale e la cosiddetta medicina alternativa si integrano senza difficoltà nella nuova medicina integrata la quale vede la malattia come uno squilibrio e quindi come una metafora di qualche cosa che si è alterato all’interno di una persona che è unica e irripetibile. Del resto si sta facendo strada anche tra i ricercatori l’idea che la malattia è l’espressione di un’unicità e che andrebbe interpretata come una metafora, ossia come un messaggero che porta un messaggio rispetto a quell’individuo con la sua storia, con le sue caratteristiche. Questo approccio vede nella malattia qualcosa che arriva alla fine di un lungo processo. Si tratta dell’esito di tutto quanto non andava, di tutto quanto era irrisolto nella nostra essenza energetica, la cui esistenza è comprovata dalla fisica quantistica e dalle neuroscienze di frontiera. Sappiamo che un disturbo inizia a livello energetico, poi passa alla biochimica, alle cellule e infine all’organo. La medicina classica arriva a questo punto finale del processo ed è insuperabile nell’acuto: se ho un’appendicite devo farmi operare da un chirurgo prima che diventi peritonite. Ma devo anche essere cosciente che quella stessa appendicite è l’esito di un processo che viene da molto lontano. Quindi la nuova medicina integrata si vuole occupare tanto dell’organo nel caso di una malattia acuta, tanto di chi ha un disturbo a un livello più sottile. Infatti è evidente che chi guarisce, o chi non si ammala ha potuto risolvere il problema prima che arrivasse al livello degli organi.
Nel suo metodo originale di cura lei usa varie tecniche di cui alcune si rifanno alle neuroscienze, non è così?
Si, è vero. Uso le neuroscienze che sono una delle mie passioni perché hanno cambiato il mio modo di lavorare e mi hanno dato degli elementi concreti per operare. Come ho già detto, la mia formazione è stata classica. Dopo la specializzazioni in psichiatria ho iniziato l’iter psicanalitico, prima nella scuola junghiana e poi, non soddisfatta, il quella freudiana. Ma quanto ero in procinto di entrare nella Società psicanalitica italiana come allieva per fare tutto l’iter, sono capitata “per caso” a un convegno dove alcuni psicoterapeuti mostravano le videoregistrazioni delle sedute con i loro pazienti. Ho avuto così modo di vedere uno psicoterapeuta che portava un paziente a sentire il corpo, a vedere come le emozioni vi fluivano e ho scoperto che questo processo faceva accedere la persona a contenuti inconsci del tutto sconosciuti. Per me la novità era che tale scoperta non arrivava attraverso la riflessione e il pensiero intellettuale, ma attraverso il corpo e che la scoperta provocava nella persona cambiamenti profondissimi e visibili da una seduta all’altra attraverso lo sguardo, il modo di parlare, l’atteggiamento generale. Oltre a ciò scoprivo che in molti casi anche i problemi fisici, le patologie croniche di cui la persona soffriva si risolvevano quasi miracolosamente, o miglioravano in modo significativo. Quindi mi sono trovata di fronte a una possibilità che forse andavo cercando da anni. Non per nulla durante gli studi di psichiatria mi sono occupata molto di psicosomatica. Scoprivo dei terapeuti che avevano recepito gli studi di neurofisiologia delle emozioni e quindi tutto quel filone delle neuroscienze che aveva preso in considerazione il sistema limbico, una parte antica del cervello che abbiamo in comune con i mammiferi, e il modo in cui questo sistema si interfaccia con la corteccia, che è invece la parte più recente del cervello e la sede del pensiero razionale. Le neuroscienze ci mostrano che questo cervello antico è molto più potente nel determinare le nostre azioni, i nostri comportamenti, che entra nelle nostre decisioni molto più di quanto noi pensiamo. Questo cervello non parla il linguaggio delle parole, parla il linguaggio del corpo perché è strettamente legato alle sensazioni.
Questo spiegherebbe perché alcune persone, dopo una psicanalisi, non mostrano nessun reale cambiamento nonostante abbiano capito razionalmente il motivo dei loro problemi?
Proprio così. Una delle cose più belle per il terapeuta che pratica queste nuove forme di terapia è l’assistere a reali cambiamenti in un tempo relativamente breve. Sappiamo che una psicanalisi classica può durare anni ed è frustrante anche per il terapeuta vedere un paziente tornare, due o tre volte alla settimana anno dopo anno, a volte senza registrare nessun cambiamento all’infuori di un aumento della consapevolezza.
Come sono nate le tecniche che lavorano sul sistema limbico?
La tecnica specifica che sono andata a imparare negli Stati Uniti e in Canada si chiama ISTDP (Intensive Short-Term Dynamic Psychoterapy), è stata ideata da uno psicanalista canadese di nome Davanloo che oggi ha circa ottant’anni. Questo psicanalista era sempre più insofferente all’idea che alcuni pazienti, che frequentavano il suo studio da anni, non facessero nessun progresso importante. Decise così di videoregistrare le sedute di psicanalisi per vedere se riusciva a scoprire che cosa faceva sì che in alcuni casi si registrasse un miglioramento, mentre in altri casi no. Esaminando le registrazioni scoprì che nelle sedute che avevano sortito un effetto la persona era entrata, in modo fortuito, in contatto diretto con un’emozione, l’aveva vissuta, l’aveva sentita nel corpo. Pensandoci bene, era anche il modo in cui lavorava Freud.
Infatti, se non sbaglio si parla della catarsi che dovrebbe essere causata dal rivivere il trauma…
Proprio così. Le terapie di Freud erano sempre brevi. Quindi il problema non era tanto Freud, che tra l’altro negli ultimi scritti raccomanda ai propri allievi di verificare il modello da lui lasciato, confrontandolo con nuove scoperte scientifiche sul cervello. Il problema era la scuola freudiana che si era focalizzata essenzialmente su un aspetto intellettuale e su una presunta neutralità dell’analista che oggi sappiamo essere un’illusione perché nessun essere umano è neutrale.
Come lavora l’ ISTDP?
L’ISTDP non dà peso alla storia della persona. Importante è che, durante la seduta, l’attenzione del terapeuta faccia emergere nel paziente i ricordi infantili, di come è stato guardato, di come è stato accudito. L’affluire di questi ricordi si nota dall’espressione del volto, dal modo di respirare, dai movimenti del corpo. Si tratta di un lavoro quasi chirurgico e si arriva molto in fretta a quello che viene chiamato un breakthrough, ossia a un’apertura che porta a quell’episodio del passato che spiega tutto.
Oltre all’ISTDP lei usa anche altre tecniche. Le usa sistematicamente per tutti o varia a seconda del paziente?
Cerco di fare un intervento su misura per la persona e quindi la scelta delle terapie da usare dipende da molti fattori, come ad esempio da quello che la persona porta in terapia, perché oggi ho parecchi pazienti che mi consultano per patologie fisiche e non solo per problematiche di tipo psicologico. Infatti per me non c’è differenza tra la psiche e il soma, le varie patologie sono solo forme di espressione. Conta inoltre molto anche il livello di coscienza della persona stessa. Alcune persone non sono assolutamente pronte ad affrontare terapie di tipo energetico. Tengo quindi conto delle credenze del paziente prima di iniziare una terapia.
Ho anche constatato che le terapie di tipo spirituale non funzionano se ci sono blocchi emotivi e quindi, a meno che non sia chiaro che non vi sono blocchi di questo genere, inizio sempre con la ISTDP che è molto efficace per scoprire le questioni emotive da risolvere. A volte basta il lavoro sulle emozioni e mi fermo lì. In altri casi invece vado avanti usando l’ipnosi o altre tecniche di tipo energetico.
L’evoluzione spirituale non è quindi indispensabile ai fini della guarigione?
Direi che non cerco e non induco un lavoro di tipo spirituale. A volte però succede, anche con persone molto razionali e del tutto prive di un background di quel genere, che il breakthrough faccia riemergere una massa di materiale inconscio che sorprende la persona e provoca una specie di epifania. Ci sono persone che hanno rivissuto episodi precocissimi, risalenti addirittura ai primi due anni di vita, quando non ci sono parole, ma solo sensazioni registrate dal corpo, in quanto l’ippocampo, quella parte del cervello limbico che registra i ricordi biografici non è ancora attivo. In quei momenti, vi è una connessione con il proprio sé che fa sì che anche persone insospettabili a volte si percepiscano come esseri spirituali. Alcuni dicono cose profondissime sulla loro vita, sulla loro anima, sulla loro missione. Sono momenti in cui la vita entra in contatto con altre dimensioni. Questi casi sono estremamente commoventi e fanno capire che noi esseri umani siamo tutti uguali, che dobbiamo confrontarci con tutti gli archetipi, dobbiamo affrontare tutti certi momenti critici della vita, certe prove e abbiamo un potere di amore e di sentimento altissimo. Queste scoperte sono bellissime perché restituiscono un senso dell’umano che è incondizionato.
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