La danza, la musica (e i giochi con gli asini) per aiutare i pazienti
Il lavoro sulle emozioni per riabilitare il corpo
di Paola D’Amico, Corriere della Sera
Murales dipinti sulle facciate di palazzine che un tempo ospitarono i malati psichiatrici; e poi una galleria di quadri, dove le firme d’autori famosi si mescolano a quelle di gente comune, tutti ex pazienti. L’insieme di queste opere è il Mapp, oggi museo d’arte a tutti gli effetti, nato nell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini, che rimane la rappresentazione più evidente dell’arte-terapia introdotta trent’anni fa dagli stessi medici della mente incaricati di smantellare il grande manicomio alla periferia di Milano. Il Paolo Pini era arrivato negli anni Sessanta a ospitare 1.200 «matti». E Antonio Guerrini, psichiatra, fu l’artefice dell’una e dell’altra operazione. Il linguaggio del corpo è stato per lui uno strumento prezioso in più per «riagganciare» nel mondo i pazienti psichiatrici, per «riattivarli». E lo è tuttora. Da dieci anni, da quando ha lasciato le corsie degli ospedali, infatti, coordina l’ex Piano urbano per la salute mentale (esperimento tutto milanese) e dice: «Uso come palcoscenico per i miei matti la città intera, bar, teatri, cinema, campi da calcio». Cominciato come un esperimento, il progetto di far cadere due barriere (la paura che i matti hanno del mondo e la paura che il mondo ha di loro) è diventato quotidianità . «Facciamo fare loro le cose che facciamo tutti, inclusi danzare, suonare, giocare a calcio, fare teatro». L’arte-danza-musico-terapia è, spiega, «un grande strumento di riabilitazione. A noi può dare emozione calcare un palcoscenico o danzare o suonare o andare a teatro? Perché non dovrebbe essere lo stesso per loro?».
Lavorare sulle emozioni per riabilitare un corpo disabile ma anche una mente disabile è l’esperienza che Maria Fox, ballerina e coreografa argentina — la mamma della danzaterapia — per cinquant’anni ha portato nel mondo. Lei, che psichiatra non era, capì com’era più facile e immediata la comunicazione attraverso il corpo anche in quelle psicosi o nei ritardi mentali che non consentono una via dialettica. «Quando balliamo — scrisse — non esprimiamo solo la bellezza, ma la rabbia, l’angoscia, il dolore. Sono un’artista che ha trovato non una cura ma un metodo che cambia la gente mediante il movimento». E non c’è cura senza cambiamento.
La psichiatria ufficiale, per anni, ha guardato con sospetto se non ignorato questo approccio umanistico. Eppure per convincersi che «dentro a ognuno c’è un potenziale autorigenerativo che va semplicemente stimolato e che l’arte permette un’espressione diretta, spontanea, arcaica e istintiva che non è mediata dalla ragione», come spiegano i suoi sostenitori, basta rileggere ciò che scrisse Edvard Munch nel suo diario dopo aver dipinto l’Urlo, icona delle ansie collettive: «Io avverto un profondo senso di malessere, che non saprei descrivere a parole, ma che invece so benissimo dipingere». Il pittore norvegese, precursore dell’Espressionismo, aveva studiato le teorie sulla psiche di Freud ed era convinto non solo che la pittura l’avesse aiutato a guardare dentro se stesso ma anche che fosse un «mezzo per esprimere le emozioni ed espiare i propri dolori». «L’arte — scriveva — è il sangue del nostro cuore». Era il 1885. Vent’anni dopo sarebbe diventato primario all’ospedale psichiatrico di Zurigo, Carl Gustav Jung, grande innovatore, che vedeva nell’inconscio «il serbatoio di tutte le risorse di guarigione» e sosteneva che l’arte fosse «la via regia» per accedervi. Una ripresa dell’antica tradizione greca, di cui era profondo conoscitore, che utilizzava il teatro e la musica per favorire la catarsi collettiva.
Oggi le neuroscienze gli danno ragione. «Hanno dimostrato che le nostre emozioni guidano i comportamenti più della razionalità  — sintetizza la psichiatra e criminologa Erica Poli, che lavora con una allieva di Maria Fox, Federica V. Le emozioni hanno sede nel sistema limbico sottocorticale che non riconosce le parole ma il linguaggio del corpo. Se vuoi curare un trauma e non passi da qui, non curerai il nocciolo più duro del trauma. Tutte le terapie che, invece, passano per il corpo sono in grado oltre che di modificare i traumi anche di sviluppare l’area corticale della corteccia prefrontale, la stessa che si sviluppa in chi fa meditazione o prega e che permette funzioni superiori, fino al raggiungimento di uno stato di benessere pieno e incondizionato». Scienza e arte, filosofie antiche del benessere e medicina, si fondono.
L’arte-danza-musico-terapia si basa sul recupero della parte sana dell’individuo per scoprire, attraverso il movimento e la musica, le risorse che esistono in ognuno di noi. «Un movimento totale del corpo come la danza migliora le funzioni di molti sistemi fisiologici. Creare arte, visualizzarla, e parlarne fornisce alle persone l’opportunità  di far fronte a conflitti emotivi, aumentare la consapevolezza di sé ed esprimere le preoccupazioni inespresse e spesso inconsce della loro malattia», conclude Poli. Queste terapie che attingono all’arte e integrano le terapie convenzionali, in sostanza, ci riconnettono all’emisfero del cervello (il destro), che è sede della creatività , della fantasia, dell’intuizione, delle percezioni sensoriali.
È lo stesso binario entro cui si muove da qualche anno e con sempre migliori risultati la psicologia assistita con animali. «Il setting terapeutico nel nostro caso si sposta da una stanza a un prato — racconta Beatrice Garzotto, laurea in Psicologia generale sperimentale a Padova e perfezionamento in Colorado —. Il contatto con l’animale è istintivo. Cavalli e asini codificano immediatamente le tue emozioni: sono prede e devono capire in fretta se è il caso di scappare o se possono fidarsi. La comunicazione è ben diversa dalla nostra, spesso ambivalente, ambigua e nevrotica. Gli animali non lasciano spazio alle ambiguità ».
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