Dott.ssa Erica Francesca Poli – Psichiatra, psicoterapeuta
Premessa
Quando il Produttore Esecutivo di Anima Edizioni, Jonathan Falcone, mi ha proposto di scrivere un articolo sull’utilizzo etico degli psicofarmaci, la cosa ha prodotto in me una duplice reazione, di entusiasmo e timore.
Sono medico psichiatra, i farmaci fanno parte degli strumenti di cui dispongo, ma integrati con molti molti altri che si dispiegano dalla psicoterapia, fino alle tecniche di psicologia energetica.
Sono dunque certamente un’eclettica e poiché attribuisco grande valore alla deontologia dell’arte medica che professo, l’idea di poter dare un contributo per fare chiarezza su un campo così pieno di luci ed ombre, non poteva lasciarmi indifferente.
Ma poiché non amo le partigianerie, di nessun filone, ho sentito tutto il peso della responsabilità di scrivere un articolo che fosse in tutto e per tutto serio, secondo il principio di scienza e coscienza, elemento base del giuramento professionale moderno del medico.
Più che sul termine “scienza”, per certi versi più chiaro, voglio fare un cenno semantico alla parola “coscienza”.
Nella lingua latina, il termine “conscientia” significa testimonianza e, secondo Cicerone (De Officiis), la coscienza è quanto di più divino è stato concesso all’uomo.
La coscienza é dunque assai vicina all’etica: é attestazione di esistenza, facoltà di giudizio, capacità di osservazione, intenzione e presenza.
Riferirsi al principio di scienza e coscienza non è quindi un modo di dire, ma sottintende la credibilità professionale; è un binomio che esorta tutti i professionisti medici alla necessità di attenersi alla formula della responsabilità.
A mio modo di vedere, responsabilità significa andare ben oltre i luoghi comuni, gli stereotipi ed i paradigmi formativi, profondere le proprie energie nell’impegno e nella continua esplorazione, appassionata e consapevole, di quella realtà infinita che é la persona nella sua interezza. In questo, la Carta europea dei diritti del malato e il Codice di deontologia medica sono straordinariamente congruenti.
Con questo spirito mi accingo a trattare il tema degli psicofarmaci.
Sostanze psicoattive: breve storia di una tentazione positivista
Anni ’30, per l’esattezza 1936:António Egas Moniz sviluppa una tecnica chirurgica per recidere le fibre nervose che connettono il talamo e il sistema limbico con la corteccia prefrontale (leucotomia prefrontale). In breve applicata sulle più svariate forme di alterazioni del comportamento, dalla psicosi, alla depressione, ma anche per personalità “scomode”, aggressive o disinibite, vale a Moniz persino il Nobel. Ma il suo diffuso utilizzo ne mostra rapidamente i danni, per giunta irreversibili.
Cosí uno dei primi tentativi volti a modificare la funzione cerebrale decade, ma con l’avvento, negli anni ’50, degli antipsicotici come la clorpromazina, i farmacologi ricadono nella tentazione positivista di trovare una soluzione meccanica e razionale anche per i problemi della mente.
Tutto il secolo scorso è stato testimone di un rapido aumento dei farmaci psicoattivi di sintesi, ma il grosso problema di tutti questi farmaci é in realtà l’assenza di specificità: ogni farmaco é in grado di interagire con i recettori di più neutrotrasmettitori contemporaneamente, il che rende ragione degli effetti collaterali indesiderati e della conseguente necessità di correggerla con ulteriori farmaci.
Qualche esempio? L’incremento dei valori della prolattina sotto terapia antipsicotica che richiede soppressione con bromocriptina, la resistenza all’insulina indotta dai neurolettici atipici, gli effetti cardiocircolatori degli antidepressivi triciclici, o la necessità di tamponare con farmaci antiacidi e antispastici gli effetti gastroenterici dei diffusissimi antidepressivi inibitori della ricaptazione della serotonina.
Non solo, gli stessi farmaci che agiscono su alcuni sintomi psicopatologici, ne producono altri, proprio perché non dotati della precisa specificità farmacologica che si vorrebbe: ad esempio i neurolettici, pur sedando l’angoscia e i sintomi psicotici, producono in una significativa percentuale di casi depressione secondaria, alcuni antidepressivi tendono ad abbassare la soglia di irritabilità, producendo disforia ed ipereccitabilità.
In seguito all’introduzione, nel 1987, di farmaci antidepressivi che agiscono sulla ricaptazione della serotonina (Ssri), come il famoso e poi controverso Prozac, si é verificata quella che altri prima di me hanno definito come una vera e propria epidemia farmacologica: per fare un esempio, le statistiche indicano che all’inizio del 2000 nel mondo più di 35 milioni di persone utilizzavano questo farmaco.
L’enorme diffusione di queste sostanze é emblematica, tanto del livello elevato di ansia e di stress della società contemporanea, quanto della sua intolleranza a queste condizioni.
La tentazione delle scienze positiviste é in fondo sempre la stessa: trovare meccanismi esatti e spiegazioni razionali per le emozioni e le pulsioni, nel tentativo di risolvere in termini molecolari quei misteri che in realtá sono all’essenza della natura stessa e ricondurre ad una equazione sintomo/farmaco i complessi aspetti esperienziali di ogni alterazione mentale, cognitiva o emotiva.
Un simile tentativo finisce col far perdere il potere piú grande di cui disponiamo per curare, rappresentato proprio dalla relazione e dalle dinamiche emotive, oltre che bloccare l’accesso all’inconscio, non inquadrabile in leggi razionali, ma fonte delle energie psichiche realmente trasformative.
Questo discorso appare particolarmente importante soprattutto in vista di una prossima diffusione di sostanze psicotrope più potenti e selettive, dotate di un fascino che può implicare un allargamento del loro uso anche alle persone prive di reali problemi ma desiderose di «potenziare» alcuni aspetti del comportamento, soprattutto quelli che facilitano le interazioni e il successo sociale. Quella che poteva sembrare solo una fantasia invece potrebbe divenire rapidamente una realtà e potremmo dunque assistere alla possibilità di un controllo selettivo della vita emotiva. Sempre piú dunque parlare di uso etico degli psicofarmaci e considerarne effetti e limiti, diviene una questione irrinunciabile.
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