Antidepressivi: luci ed ombre

Come per gli ansiolitci, anche per gli antidepressivi, il rischio di diagnosi errate e abuso é molto rilevante.

In realtà gli antidepressivi andrebbero primariamente impiegati nel trattamento dell’episodio depressivo, che é una condizione clinica piuttosto definita in termini di sintomi, gravità e decorso.

Nei soggetti depressi il trattamento accelera la remissione dei sintomi; viceversa, nei soggetti con depressione sottosoglia, minore, lieve e in tutte le circostanze di umore deflesso in assenza di depressione maggiore, l’efficacia degli antidepressivi non è dimostrata. Nella pratica clinica, quindi, vi saranno situazioni chiare, caratterizzate da importanti episodi depressivi, che richiedono un adeguato trattamento, ma anche situazioni meno chiare, dai contorni sfumati, in cui caso per caso sarà necessario valutare pro e contro del trattamento antidepressivo. In questi casi vi deve essere consapevolezza che gli antidepressivi sono gravati da effetti collaterali, e che tra questi vi potrebbe essere agitazione, irrequietezza motoria e, forse, in situazioni già a rischio, slatentizzazione di pensieri e atti autolesivi. I dati di vendita degli antidepressivi sembrano viceversa indicare un utilizzo acritico, basato sulla convinzione che “tanto non fanno male” più che su una attenta discussione con il paziente della loro utilità e dei loro limiti.

 

La psicodiagnosi: così importante, così difficile

La diagnosi psichiatrica é davvero tra le più difficili che la medicina contempli.

Si tratta di comprendere il funzionamento della mente di una persona, stabilire se sia affetta da un disturbo specifico o meno e tutto questo soprattutto basandosi sulla clinica e su valutazioni testali comunque da interpretare.

Con l’avvento di tecniche di neuroimaging cerebrale molto più specifiche, come la risonanza magnetica funzionale e le tomografia (SPECT E PET), la ricerca neurofisiologica ha potuto compiere molti passi in avanti, ma da qui a poter utilizzare queste tecniche, impiegate soprattutto per la ricerca neuroscientifica, per fare diagnosi il passo non è ancora così breve.

La questione dell’errore diagnostico in psichiatria é veramente calda e in questo caso, sorprendentemente,  l’allarme é stato lanciato dagli esperti nel ciclo di incontri ”Appropriatezza terapeutica e rischio clinico in psichiatria”, promosso dalla casa farmaceutica AstraZeneca in tutta Italia.

In questo ambito si é parlato di un errore diagnostico, ad esempio per due disturbi così rilevanti come la depressione maggiore e il disturbo bipolare, che raggiunge il 70%.

E già in uno studio del 2001 di Bowden si legge  che l’errore diagnostico si aggira  sul 40%.( Bowden CL (2001): Strategies to reduce misdiagnosis of bipolar depression. Psychiatr Serv 52:51-55.)

Una percentuale del quaranta o del settanta, è comunque e sempre un errore diagnostico francamente molto serio, perché significa che un “esercito” di persone presenta problemi terapeutici misconosciuti e, quando la terapia è sbagliata, non solo il soggetto va incontro a situazioni devastanti ma aumenta anche, qualora sussistesse una patologia bipolare ad esempio, non correttamente diagnosticata, il rischio di suicidio.

È fondamentale dunque affidarsi ad un professionista che abbia competenze di psicodiagnosi elevate e che applichi alla valutazione del disturbo mentale un serio assessment basato sia sulle recenti acquisizioni neuroscientifiche sia su una precisa valutazione dei fattori emozionali (si veda ad esempio la tecnica di assessment emotivo della ISTDP www.istdp,ca).

Solo una corretta psicodiagnosi, cioè la valutazione del funzionamento psichico della persona, e non solo la raccolta dei sintomi, può condurre ad una appropriata decisione circa l’introduzione di una psicofarmacoterapia.

 

Questioni scomode

In un articolo che voglia toccare anche gli aspetti etici, certe questioni scomode non si possono non citare. Meriterebbero una trattazione a parte, in questo caso le accenno soltanto, ma non posso ometterle, proprio per dovere di onestá intellettuale.

Ci sono due aspetti che indubbiamente sono molto delicati in tema di prescrizioni psicofarmacologiche. Uno riguarda la già citata moltiplicazione delle diagnosi e dunque delle prescrizioni e dei protocolli, l’altro il delicato tema dei rapporti tra case farmaceutiche e medici prescrittori, ricercatori, conferenzieri.

Spesso, come denunciato in un bel libro di Moynihan e Cassels ,”Farmaci che ammalano”, sono le stesse case farmaceutiche a designare come malattie alterazioni prima ritenute normali nell’alternanza di alti e bassi della comune esistenza,  trasformando una persona sana in una malata, e, dunque, bisognosa di cure e di farmaci. Le diagnosi si moltiplicano, la timidezza diventa Fobia Sociale, i disagi precedenti al ciclo Sindrome Premestruale e così via e questo comporta una percezione di malattia lá dove prima non c’era e la necessità di trattamento farmacologico per condizioni nelle quali invece i fattori emotivi o ormonali alla radice sarebbero da trattare.

La seconda questione riguarda i legami tra l’industria farmaceutica, i medici ed il mondo accademico, che in gran parte influiscono sul prezzo di mercato dei farmaci da prescrizione.    Moltissimi dati a questo proposito sono contenuti in un altro libro intitolato “La verità sulle case farmaceutiche” , “Truth About The drug Companies”, scritto da Marcia Angell, direttrice per oltre vent’anni del New England Journal of Medicine e, la cui recensione é apparsa proprio sul prestigioso The New York Review of Books, vol. 56 n.1, del 15 gennaio 2009.

Il libro riporta moltissimi esempi relativi a legami anche molto discutibili tra accademici e case farmaceutiche e citarlo nell’ambito di questo articolo, permette di focalizzare in maniera icastica la assoluta necessità, soprattutto quando si tratti di farmaci psicotropi, cioè in grado di agire sulla piche del soggetto a cui vengono somministrati, di una profonda e salda etica medica.

 

Concludendo ….Ogni sintomo é un invito a prendersi cura di sè

Abbiamo già discusso la necessità di diagnosi cliniche più precise, l’indicazione alla limitazione degli antidepressivi e dei farmaci ansiolitici a gravi problemi psicologici, e l’importanza di terapie farmacologiche più brevi unite ad assistenza psicologica.

Queste sono le indicazioni che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha fatto proprie in materia di psicofarmacoterapia.

Ma c’é ancora una questione: un disturbo che necessiti di medicine o meno, è sempre un segnale, è un invito a riorganizzare la propria vita verso uno stato di maggiore benessere.

Questa ottica, che in fondo incontra le semplici leggi del buonsenso, é indubbiamente andata persa con la progressiva frammentazione dell’essere umano in parti, organi, tessuti che la medicina occidentale o allopatica ha messo in atto con l’introduzione delle specializzazioni professionali.

L’uomo, da essere unitario composto da corpo, mente e spirito, è stato osservato come un insieme di cellule, organi e apparati. Da quel momento la medicina non ha più guarito l’essere umano, ma ha iniziato a dividerlo, separarlo e smembrarlo. L’unico ambito nel quale la progressiva specializzazione ha invece prodotto straordinari e potenti progressi é quello chirurgico e questa è la ragione per cui la medicina ufficiale é insuperabile nel trattamento delle acuzie e delle condizioni dove sia possibile intervenire chirurgicamente, ma fallisce nel trattamento di tutte la patologie croniche e degenerative.

Stiamo però assistendo anche in ambiti medici per così dire tradizionali, ad un ampliamento  della visione dell’essere umano, che non è solo materia o corpo ma è costituito anche da corpi sottili, come é, ad esempio, lo stesso corpo emozionale, altrettanto importanti e influenti nella sua globalità. Quelle parti sottili che, leggendo gli scritti di Ippocrate di Cos (padre della medicina moderna), troviamo contemplate dalla medicina delle origini.

Un altra questione collegata a questa, riguarda quella che io sono solita chiamare la regola degli “anti”: la maggior parte dei farmaci impiegati dalla medicina ufficiale è denominata con un prefisso “anti”, antidepressivi, antipsicotici, antiacidi, antibiotici, anticipertensivi e così via. Questo indica in maniera emblematica la concezione che vi é sottesa e cioè che ogni sintomo é un nemico da combattere, con qualcosa di opposto.

Ogni sintomo va soppresso, schiacciato e fatto sparire in una terribile confusione tra sintomo e malattia. Per questo, facendo diagnosi sintomatologiche, si giunge ad una moltiplicazione di disturbi, come già discusso più sopra, e sopprimendo il sintomo se ne perde il significato e la funzione di bussola per la navigazione verso la cura giusta.

La regola degli “anti” é quanto mai deleteria proprio nel campo della salute mentale dove i sintomi sono mezzi espressivi del disagio. Si dovrebbe stare molto attenti alla loro soppressione e nessun farmaco andrebbe mai somministrato senza aver colto il funzionamento della psiche della persona rispetto al sintomo che si vuole trattare, e senza comprendere prima quale ruolo questo sintomo avesse, se di difesa o di autopunizione ad esempio, perché nei due diversi casi, l’approccio sarà differente.

É bene dire che é anche necessario diventare responsabili della propria salute e malattia, prendendo in mano la nostra vita in tutto e per tutto, anche nelle cose che non ci piacciono o che causano sofferenza. Questo perché il mutamento del paradigma medico da riduzionista ad olistico deve andare di pari passo con un incremento anche della

cosiddetta responsabilità individuale.

Questo é anche in fondo il senso di scrivere e divulgare articoli come questo.

 

Dieci comandamenti per un uso etico dei farmaci

Non ho scritto “i” dieci comandamenti perché questa sintesi conclusiva non ha alcuna pretesa di assolutezza.

É solo un vademecum tratto dalla ricerca, dalla pratica clinica e dall’osservazione dei dati finora disponibili, esposti più sopra.

  1. Gli psicofarmaci sono potenti ed utili, ma non possono e non debbono mai essere l’unico strumento di cura di un disturbo mentale. Da soli non bastano. Ci vuole l’integrazione di più dimensioni, esattamente come di più dimensioni é fatta una persona.
  2. Il miglior utilizzo di uno psicofarmaco é in acuzie e su target sintomatologici precisi, poiché lo psicofarmaco é una buona arma se si ha ben chiaro il bersaglio da colpire.
  3. I disturbi mentali non rispondono tutti allo stesso modo agli psicofarmaci. Rispondono meglio i disturbi mentali maggiori, come la depressione maggiore, il disturbo bipolare, le psicosi. Non rispondono altrettanto bene i disturbi di personalità, i disturbi psicosomatici e le sindromi sottosoglia, cioé quelle di entitá moderata. Per questo é fondamentale una corretta psicodiagnosi psichiatrica, che purtroppo però risulta a tutt’oggi errata in prima battuta, per quanto con concerne i disturbi dell’umore, nel 50-70%  dei casi
  4. Ogni trattamento dovrebbe tenere conto dei protocolli standardizzati per poi passare al tailoring del trattamento che deve essere il più possibile su misura per ogni singolo paziente.
  5. Gli psicofarmaci non proteggono dalle recidive. Una volta tamponato il sintomo acuto, é necessario intraprendere un lavoro psicologico personale per chiarire origine, significato e natura del disturbo. Le recidive si prevengono o almeno si tengono sotto controllo attraverso un lavoro di auto consapevolezza di sè, di psicoterapia, di riabilitazione volti ad accrescere le risorse della persona.
  6. Nel caso sia necessario un trattamento prolungato é fondamentale tenere presente gli effetti collaterali e anche gli effetti secondari degli psicofarmaci, oltre ad una corretta implementazione nutrizionale. Questo significa che lo psichiatra deve valutare anche gli aspetti internistici della cura, gli effetti del farmaco sul metabolismo e così via.
  7. Uno psicofarmaco in adolescenza o nell’infanzia non dovrebbe mai essere prescritto in prima istanza, come mezzo di controllo comportamentale o via di fuga da una problematicità che, nella maggior parte dei casi, é anche familiare. Qualora vada prescritto, il controllo degli effetti a lungo termine é più che mai fondamentale.
  8. Se si prescrive uno psicofarmaco é essenziale che venga assunto nei tempi e nei dosaggi previsti: un sovradosaggio é pericoloso, ma anche un sottodosaggio può esserlo, alimentando la persistenza del disturbo e la dipendenza.
  9. La terapia ansiolitica e ipnoinducente in particolare non dovrebbe mai essere cronica. Una assunzione cronica di ansiolitici o ipnotici tende a peggiorare il tono dell’umore e crea dipendenza.
  10. 10. Lo psicofarmaco assume una reale importanza solo nell’ambito di una relazione terapeutica di valore. Siamo esseri relazionali, la nostra mente é una mente relazionale, il nostro cervello è plastico e i nostri neuroni rispondono alla stimolazione, che viene dal rapporto con noi stessi e con gli altri, creando nuove reti neurali che corrispondono a nuove forme di funzionamento e nuove risorse.  Per questo ciò che conta é che il farmaco si situi all’interno dell’alleanza terapeutica con il medico che lo prescrive e sia utilizzato come uno degli strumenti disponibili, con il pieno consenso e la completa informazione del paziente. In quest’ottica lo psicofarmaco può essere un valido presidio e trovare la sua efficacia e utilità.