“Questo è precisamente il trauma. Ciò che non passa.
Un’ostruzione che impedisce la costruzione.”
G. Pellizzari
“È stato come essere stata fatta a pezzi
e cominciare a rimetterli assieme.”
S., paziente del S.V.S.
Introduzione
Il problema della patogenicità traumatica della violenza sessuale è complesso e presenta una molteplicità di aspetti che necessitano di un trattazione altrettanto sfaccettata.
La presente trattazione si snoda su due percorsi paralleli ed intrecciati: da un lato, l’elaborazione di alcune riflessioni critiche relative all’entità concettuale e psicopatologica di trauma rispetto alla violenza sessuale, dall’altro, la specifica trattazione della fenomenologia clinica della sindrome post-traumatica da vittimizzazione sessuale.
Una siffatta dichiarazione d’intenti prende le mosse dalla profonda convinzione che solo una “psichiatria psicodinamicamente orientata”, quindi in grado di tenere uniti il momento diagnostico “categoriale” e la comprensione fenomenologica e dinamica “dimensionale”, possa davvero cum-prendere la realtà della sofferenza psichica, ancor più nel caso della persona violata.
Le figure del mito
Date queste premesse non possiamo non riferirci al mito: è già acquisizione platonica che i miti assai più che il ragionamento logico, illuminano seppur in forma umbratile la verità e rivelano seppur in forma velata.
E il mito ci ricorda e ci conferma la tragica ritualità dello stupro nella storia del genere umano.
Sono Nemesi e Filomela le figure che i miti ci lasciano.
Nemesi dalla chioma fluente, come la descrive Esiodo, è la dea della giustizia riparatrice; di lei si sa poco tranne che un evento: lo stupro di Zeus.
Tra le tante suggestioni che il mito potrebbe suggerirci, limitiamoci ora soltanto a riconoscere come le parole del mito mettano in luce la dinamica di potere, per nulla erotica, che sottende lo stupro, che non è fatto sessuale , seppur avviene in veste di sessualità, ma bensì è fatto di potere.
Così Zeus si unisce a Nemesi “a causa della potente necessità”, in un atto che non ha niente a che fare con l’amore, non prevede seduzione, ma è causato da pura ostilità, rabbia e controllo.
Filomela, invece, compare nelle metamorfosi Ovidiane, e ci spinge ad anticipare qualche spunto terapeutico; stuprata dal re Tereo, Filomela subisce per mano di questi la recisione della lingua, perché non possa parlare.
Ma Filomela si fa tessitrice del dramma e tesse un arazzo, destinato ad altre donne, che narra la sua storia.
Con le premesse del mito, cerchiamo ora di tracciare i nostri percorsi di parole.
Il trauma psichico come concetto altamente instabile
Volendo a questo punto intraprendere il primo percorso tracciato, cominciamo ad occuparci del trauma, e non già solo del trauma fisico, che, peraltro, è anche presente nella vittimizzazione sessuale, ma, soprattutto, del versante psichico della traumatizzazione, che sottende e permea, come vedremo, in generale e ancor più nel caso della violenza sessuale, la traumaticità stessa dell’evento.
Il trauma psichico, tuttavia, è concetto dotato di un’elevata instabilità: l’universo prepsicologico lo ignora, ma la sua psicologizzazione lo dissolve.
Universale e particolare al contempo, il trauma colpisce tutti i gruppi di età e classe sociale, gli eventi traumatici possono spaziare da sottigliezze a casi estremi: così, più noi ci spostiamo dall’approccio quantitativo (è traumatico ciò che è altamente imprevedibile e forte, ovvero i criteri di traumaticità proposti dal DSMIV per il PTSD), più noi ci allontaniamo dal riferimento al puro dato esterno delle caratteristiche dell’evento, per giungere, invece, a quello qualitativo (è traumatico ciò che viene vissuto come tale dal soggetto), cioè al dato interno della soggettività dell’evento traumatico, ovvero più psicologizziamo il trauma, com’è giusto che sia per capirlo davvero, più tuttavia, siamo sempre meno in grado di dire cosa è traumatico.
Entrano in gioco, a questo punto, i tanti e differenti fattori di vulnerabilità della vittima e, prima ancora, i fisiologici, ma diversi meccanismi mentali organizzatori delle risposte specifiche ed individuali al trauma che, nel caso della vittimizzazione sessuale sono rappresentati, ad esempio, dalla debolezza dell’Io, dalla presenza di scarse o immature difese, da un precoce sviluppo istintuale o da una iperstimolazione libidica, da pregresse carenze genitoriali, da un livello di frustrazione eccessivo, dal momento dello sviluppo o dalla fase dell’esistenza in cui avviene il trauma e dalle conseguenze sulla definizione del Sé e sul tipo di relazione instaurata con gli oggetti esterni.
La lunga storia del trauma e della sua psicologizzazione
È a Freud che si deve la scoperta delle vicissitudini psicologiche del trauma umano e da quel momento si discute, non solo in ambito psicoanalitico, del ruolo del trauma nella psicopatologia. “Gli isterici soffrono principalmente di reminiscenze”: così Freud afferma già nel 1896, nelle Nuove Osservazioni sulle Neuropsicosi da difesa, e prosegue:“Quasi tutti i sintomi erano sorti come residui- “sedimenti”- di esperienze cariche di affetto, che perciò più tardi abbiamo chiamato traumi psichici, e la loro singolarità trovava spiegazione nel rapporto con la scena che li aveva causati”.
Ed ancora, nel 1914 : “Le nevrosi traumatiche offrono chiari indizi che alla loro base vi è una fissazione al momento dell’incidente traumatico.”(Da Storia del movimento psicoanalitico, vol.VII pagg.390-391)
E, a seguire, nel 1922: “L’espressione traumatico non ha altro senso se non questo, economico. Con essa noi designiamo un’esperienza che nei limiti di un breve lasso di tempo apporta alla vita psichica un incremento di stimoli talmente forte che la sua liquidazione o elaborazione nel modo usuale non riesce (….) Qual è il nucleo, il significato della situazione di pericolo? Chiaramente la valutazione delle nostre forze rapportate all’entità del pericolo, l’ammissione della nostra impotenza di fronte ad esso. (….) Chiamiamo traumatica una simile situazione vissuta di impotenza” (Da Psicoanalisi vol.IX, pagg.446-448)
Nonostante in questa sede non si possa che tracciare un rapido excursus circa la storia del trauma e della sua psicologizzazione, va detto che essa è, in verità, assai lunga.
Nel 1980, con l’introduzione della categoria diagnostica del PTSD nel DSM III, al fine di dare risposte agli interrogativi nati dall’osservazione della larga prevalenza di disturbi nervosi nei veterani del Vietnam, il concetto di trauma psichico ebbe una vera e propria rinascita fino a mostrarsi come il concetto a più rapida espansione in ambito psichiatrico e a più larga influenza sul senso comune.
Tuttavia, l’origine di questo concetto resta ignota ai più, che non sanno quanto variegato fosse, esattamente un secolo prima, attorno al 1870, lo sfondo storico-culturale, da cui prese le mosse lo stesso pensiero di Freud ed ebbero origine categorie diagnostiche quali l’isteria traumatica e la nevrosi traumatica.
E’ stato detto che il concetto di trauma psichico sia simultaneamente una risposta alla modernità ed un elemento costitutivo della modernità (Lerner e Micale, 2000); in effetti, la storia di questo concetto ha origini che pescano proprio nella rivoluzione industriale.
Le prime definizioni ci parlano di Irritazione spinale (Thomas Brown 1828), Nevrosi riflessa, Spavento, Shock nervoso (Fisher-Homberger 1975): sono sindromi che nascono dalle nuove scoperte sulla spina dorsale come centro della comunicazione nervosa e dalle osservazioni effettuate proprio sugli incidenti ferroviari (la “railway spine” di Erichsen del 1866, prima sindrome di tipo post-traumatico descritta).
Negli anni seguenti si assiste alla “migrazione” della localizzazione della lesione nervosa, dalla spina dorsale ai riflessi nervosi, da questi al cervello e infine alle rappresentazioni mentali: la migrazione della sede corrisponde anche ad uno slittamento semantico, da cui prende forma il concetto ibrido di trauma psichico (Fisher-Homberger 1975).
Nel 1884, Strumpell introduce il termine di trauma psichico, che più tardi, nel 1888, indicherà quale causa occasionale delle nevrosi traumatiche.
Il trauma è qui inteso come “forte spavento”, idea già appartenuta alla psichiatria morale della prima metà del secolo, secondo la quale, proprio le forti emozioni sono una causa dell’alienazione mentale.
Si può dunque comprendere come la questione del trauma psichico coincida con una riorganizzazione profonda del modo di pensare all’interiorità dell’uomo, come è stato incisivamente sottolineato dal filosofo della scienza Ian Hacking, il quale sostiene che:“Tra il 1874 e il 1886, quando la conoscenza della memoria diventò un surrogato della comprensione spirituale dell’anima, (…) Il travaglio spirituale dell’anima , che aveva servito così a lungo un’ontologia del passato, poteva ora diventare dolore psicologico nascosto. (…) Il trauma è il perno attorno a cui ha ruotato questa rivoluzione.”(Hacking 1995, p.271).
Sebbene il termine e la semantica di “dolore psicologico nascosto” appartengano ad un’età più tarda, è assolutamente vero che, in questo primo periodo, l’osservazione di corpi urtati, secondo le leggi della fisica, travolti da un treno, precipitati da un’impalcatura, investiti da uno scoppio di una granata e rimasti interi, anche se inconsapevoli di ciò, come dimostrano la paralisi, l’insensibilità, l’amnesia sine materia apparente, fanno sì che avvenga un salto dal corpo reale, spinto fuori da sé dal trauma, al corpo rappresentato, con tutti i problemi che ne derivano.
Il corpo che, come vedremo, è centrale nella violenza sessuale, è, in realtà, centrale nella storia stessa del trauma.
Nel percorso di rielaborazione della violenza il soggetto, ridotto a corpo, un corpo come un oggetto, deve percorrere una strada verso un corpo rappresentato, corpo di un soggetto: è qui che si gioca il nesso simbolico con i sintomi somatici, nesso che si dispiega nei disturbi psicosomatici spesso conseguenti alla violenza sessuale, nesso che abita il processo difensivo alla base dei deliri somatici e di contaminazione meno frequenti, ma comunque osservabili.
Questo salto concettuale, tuttavia, come già accennato, non è esente da problemi complessi che si situano proprio al cuore del concetto di trauma psichico.
Da un punto di vista teoretico, infatti, il modello di psicogenesi imperante attorno al 1890 è quello dell’ideo dinamismo, secondo il quale all’origine dei sintomi prodotti vi è un’idea patogena, di cui Charcot parla come di “un’idea che si stabilisce nella mente come parassita, (…), e si esprime all’esterno attraverso fenomeni motori corrispondenti” e Janet come di “idee, come morbi, (che, ndr), si sviluppano in un angolo della personalità inaccessibile al soggetto, operano subconsciamente e danno origine a tutti i disturbi dell’isteria e della malattia mentale” .
Questa nozione di idea patogena svolge un ruolo decisivo quale nesso tra il trauma e i sintomi, ma finirà per rappresentare anche il locus minoris resistentiae del processo di psicologizzazione del trauma, l’origine della sua instabilità e del suo carattere dicotomico e controverso.
Si genera infatti un paradosso che è insito nel passaggio stesso dal paradigma della somatogenesi a quello della psicogenesi e che si riflette in quelle che potremmo definire le due narrative antitetiche del trauma, ovvero la dicotomia tra la lettura simbolica e quella antisimbolica dell’esperienza traumatica.
Le due narrative antitetiche del trauma
Come già tratteggiato nel paragrafo precedente, circa 120 anni fa ha inizio la psicologizzazione del trauma: si giunge, infatti, all’acquisizione che un incidente fisico può provocare, attraverso lo shock e lo spavento, sintomi post-traumatici.
Sorge così la “nevrosi traumatica” che altrettanto rapidamente sembra tramontare con la “nevrosi da indennizzo”: scoperta la partecipazione, conscia e soprattutto inconscia, della vittima nell’insorgenza dei sintomi, il peso etiologico dell’evento si riduce progressivamente, fino ai casi estremi in cui la vittima viene ritenuta responsabile della sua stessa condizione psicopatologica.
Dalla scissione tra Naturwissenschaften e Geistwissenschaften, tra scienze della natura e scienze dello spirito, si giunge allo spostamento dell’ago della bilancia concettuale dai fattori precipitanti a quelli predisponesti, sottolineando sempre più l’importanza del significato dell’evento, a scapito dell’evento stesso, finendo per confondere il trauma con lo Stress.
L’idea di trauma, nell’ambito psichico, viene così dissolta dagli stessi suoi creatori e verrà salvata soltanto dai suoi apparenti detrattori, i sostenitori della visone neuro-biologica, che a tutt’oggi, sostiene l’attuale rinascita della psicotraumatologia, attraverso le ricerche sulle risposte neurofisiologiche abnormi al centro del disturbo post-traumatico da stress.
Il trauma in realtà è un figlio bifronte di due polarità: il momento traumatico (fattore precipitante) ed il significato dell’evento (il fattore predisponente).
Si generano così due narrative che tenteremo di integrare in una visione comune.
Nel primo caso, secondo il modello ideodinamico, la costruzione dei sintomi postraumatici è intesa come mediata dalla mente: ovvero il trauma dipende dal significato dell’evento. Nel secondo caso, invece, i sintomi sono mediati dal corpo attraverso una dinamica che cercheremo di esemplificare attraverso riferimenti psicoanalitici e psicotraumatologici recenti.
Le origini di questo pensiero sono già nelle teorie freudiane, che Kardiner riprende sottolineando come l’evento traumatico agisca come qualcosa che si oppone all’assimilazione mentale, introduce, cioè, una rottura con la precedente personalità, lede la capacità di mentalizzare.
Questa visione verrà ripresa dalla Mc Dougall che parlerà più specificatamente di “collasso nel funzionamento simbolico” (Mc Dougall 1974, pag.448) e da Kirshner (1994) che, riprendendo il concetto di Lacan del “reale” come inassimilabile e dell’incontro traumatico come di “qualcosa che resiste alla significazione”, definisce il trauma come “esperienza che produce uno strappo nella rete dei significati”(Kirshner, 1994, pag. 238).
La stessi tesi è sostenuta dalla psicotraumatologia contemporanea con Greenberg, secondo il quale il trauma non viene elaborato in forma simbolico-linguistica, ma organizzato su di un livello sensomotorio o iconico con immagini orribili, sensazioni viscerali o reazioni di attacco/fuga; questo materiale non sottosta all’ordinario processo di trasformazione.
Tentativo di integrazione delle due narrative e suoi risvolti rispetto alla violenza sessuale
Riteniamo che sia fondamentale trovare una integrazione dell’antitesi, riconoscendo sia l’effetto dirompente del momento traumatico, sia il suo significato simbolico.
E’ Ferenczi che per primo parla di trauma come danno inferto al significato soggettivo del corpo vivente e attraverso l’idea di “morte parziale” coniuga effetto dirompente e simbolismo.
Nel Diario Clinico, si parla infatti del trauma come di “Un processo di dissoluzione che va nella direzione…della morte”.
In altri termini e riassumendo, nel pensiero di Ferenczi, ciò che opera simbolicamente non è il trauma, ma il nostro tentativo di limitarlo e superarlo: il trauma appare dunque come reazione all’insopportabile, cui si finisce per arrendersi e “la funzione di autoconservazione dichiara bancarotta” .
Ciò che si rompe dunque quando una persona è colpita dal trauma è un simbolo.
L’adattamento simbolico è fondamentale per l’essere umano: come sostenuto da Rank non possiamo fare a meno di trascendere il reale, con la formazione di simboli.
L’adattamento simbolico è dunque come una mescolanza continua, di fronte alla realtà, di rinuncia e speranza, come atto di unificazione e collegamento tra l’io e il reale.
Quando un individuo è colpito dal trauma è esattamente questa funzione unificatrice a rompersi.
Questo concetto che si ritrova immutato, sebbene espresso in altri termini, nella psicotraumatologia contemporanea, è già presente in Ferenczi che evidenzia la frattura, nel soggetto traumatizzato, “di sentimento ed intelligenza, l’uno regredito, embrionico, corporeo, l’altra staccata dall’emozione, puro adattamento.”
Questo è esattamente ciò che si ritrova nei clusters sintomatologici del PTSD in cui l’ ipervigilanza sembra essere la traduzione di un principio di realtà del tutto sconnesso dal principio di piacere e dalla speranza e le sensazioni fisiche abnormi rappresentano la vita emozionale altrettanto disconnessa e dunque regredita, embrionica.
Ferenczi sostiene, nel Diario clinico, che la speranza non può tuttavia mai essere annientata e frammenti di speranza vengono conservati dislocati a distanze infinite; il recupero di questi frammenti è necessario per il processo di integrazione terapeutico.
Il potenziale traumatico specifico della violenza sessuale
Ancora una volta, siamo “costretti” a psicologizzare il discorso dicendo che il potenziale traumatico specifico della violenza sessuale dipende dalla tipologia specifica dell’evento e dalla relazione di violenza e/o abuso.
Esistono tuttavia degli “invarianti”che rappresentano fattori di traumatizzazione tipici della violenza sessuale, che citiamo, anche se meriterebbero di trattazione singola:
- L’Assenza di identificazione ed empatia tra abusatore e vittima
- La condizione della vittima che diviene l’ oggetto-Sé dell’altro
- L’esperienza che la vittima fa del controllo e dell’esercizio del potere da parte dell’altro
- La situazione della vittima a sua volta possibile portatrice di un mondo interno a volte distorto o di relazioni oggettuali disfunzionali, soprattutto se con storia di abusi o nel caso di abuso perpetrato da partner o persona conosciuta
- L’esperienza della vittima come contenitore della negatività del violentatore
- L’ esperienza di deumanizzazione e di ricezione, attraverso la penetrazione sessuale, di parti schifose, di “rifiuti” dell’aggressore
- L’esperienza di oggetto in balia di un aggressore che sperimenta senso di onnipotenza e fa vivere alla vittima vissuti di impotenza, incapacità di reagire
- L’esperienza di svalutazione sociale e personale: la denuncia come mezzo per tornare alla percezione di Sé come soggetto sociale,la cura come fuoriuscita dalla percezione di Sé come oggetto.
Il trauma retrospettivo
Un aspetto che, in questa sede possiamo solo accennare, ma che meriterebbe di trattazione specifica, è quello del trauma retrospettivo.
Riprendendo gli scritti di Sandler, possiamo definire la dinamica del trauma retrospettivo come quella situazione che si viene a creare allorché traumi apparentemente non significativi nell’età adulta risvegliano traumi pregressi.
La ritraumatizzazione riguarda invece traumi significativi che si sovrappongono a traumi pregressi, anche rimossi.
Questa dinamica appare, purtroppo piuttosto frequente nel caso della violenza sessuale e ancor più nel ciclo dell’abuso, là dove gli abusi infantili predispongono ad abusi successivi che riattualizzano i precedenti.
Le conseguenze psicopatologiche della violenza sessuale
La violenza sessuale come urgenza psichiatrica comincia ad essere indagata intorno agli anni ’70 , quando compaiono i primi lavori (Sutherland e Scherle, Burgess e Holmstrom, Kilkpatrick, Resick e Veronen) relativi alle conseguenze psicopatologiche subite dalle vittime di aggressioni sessuali.
In questi studi viene evidenziata la valenza traumatica di tali eventi ed il potenziale patogeno, sul piano psichico, che essi rivestono, anche a distanza di molto tempo dall’evento stesso (Sadok).
Il range di gravità delle conseguenze psicopatologiche appare molto ampio, in relazione alle caratteristiche dell’aggressione, all’identità dell’aggressore, alla vulnerabilità della vittima rispetto all’età, alla sua situazione psicologica, al supporto familiare e sociale, all’adeguatezza delle cure ricevute, sin dal primo momento, nelle due componenti, somatica ed emotiva.
Di queste variabili, la variabile età è stata ampiamente indagata e la sua significatività, anche in qualche modo intuitiva, si collega alla capacità di distinguere tra coercizione e consenso all’atto sessuale, alla percezione di perdita della propria integrità fisica e psichica, nei momenti più delicati dello sviluppo della personalità e dell’individuazione dell’identità sessuale, che possono venire così gravemente compromesse.
La fenomenologia della risposta al trauma: il timing delle reazioni
Nonostante non esista un unico “pattern” nelle reazioni acute alla violenza sessuale, ma l’impatto emotivo del trauma si manifesti con andamento variabile, in relazione, soprattutto, alle molte variabili individuali in gioco, è possibile tracciare un profilo in senso diacronico delle reazioni conseguenti alla violenza subita, in un succedersi di fasi che rappresentano tappe della elaborazione del trauma.
In quel momento delicato che Hampthon ha definito passaggio da “vittima a sopravvissuto”, in cui il soggetto sta ancora sul crinale che separa l’esperienza subita dalla successiva reazione acuta, ovvero immediatamente dopo il fatto, la vittima può manifestare esplicitamente, verbalmente o emotivamente, sentimenti di paura, rabbia, incredulità o può, al contrario, mantenere un atteggiamento del tutto controllato nell’espressione degli affetti, fino al mutismo, in una sorta di anestesia emotiva ( Martin, 1983).
Non si può, in questa sede, non richiamare all’attenzione il grosso problema dell’alto numero di casi di violenza sessuale che non giungono all’osservazione, quella mole di casi sommersi che, proprio per ragioni di ordine socioculturale, non accederanno ai servizi di primo intervento e non saranno accompagnati in nessun modo in questa delicata transizione verso la ricomposizione di quella frammentazione che il trauma induce.
La possibilità di accedere precocemente ad un servizio di primo intervento è in realtà uno dei fattori di maggiore rilevanza per una futura buona elaborazione della violenza subita e lo dimostrano i casi che giungono al nostro Servizio non nell’immediatezza della violenza, ma anche dopo molto tempo dalla violenza, i quali presentano all’equipe una complessità di trattamento ed una cristallizzazione psicopatologica profonda e tenace, in misura molto maggiore rispetto ai casi che giungono in acuzie.
Il quadro clinico in urgenza, comunque, così come descritto in letteratura, può presentare molte diverse manifestazioni, che sono, fenomenologicamente, riconducibili al nucleo psicopatologico della risposta al trauma, nelle sue diverse sfaccettature.
Sono presenti sintomi ansiosi, sentimenti di colpa, vergogna, impotenza ed autodenigrazione, comportamenti di evitamento, pensieri intrusivi, paure e fobie legate al trauma, reazioni di rabbia ed aggressività, senso di smarrimento e perdita della capacità di autodeterminazione, fino a stati di depersonalizzazione e derealizzazione (e molto meno frequentemente amnesie psicogene), deflessione del tono dell’umore e disforia fino a ideazioni e comportamenti autolesivi, reazioni somatiche e neurovegetative, disturbi del sonno con incubi e flashbacks.
Alcuni autori (Burgess e Holstrom, 1983) hanno compreso questi quadri clinici in una “sindrome da trauma” considerata come la prima fase della risposta alla violenza sessuale e definita come “fase della disorganizzazione”, che può protrarsi da pochi giorni ad alcune settimane dopo la violenza.
Questa fase della disorganizzazione ruota attorno a tre nuclei psicopatologici fondamentali: il nucleo dei sintomi somatici, rappresentati, oltre che dalle conseguenze dirette dei traumi fisici, talvolta estremamente gravi, da disturbi gastro-intestinali, genito-urinari, senso di affaticamento, cenestopatie e cefalea, il nucleo dei sintomi ansiosi o connessi all’aumentata reattività a cui si associano i disturbi del sonno ed, infine, il nucleo dei sentimenti di stampo depressivo, con i vissuti di colpa e vergogna.
Questa sindrome, come si vede, richiama, in parte, la categoria diagnostica del DSM IV del Disturbo Acuto da Stress, che, secondo i dati di letteratura, è presente nel 94% delle vittime di stupro nella prima settimana e nel 47% dei casi a tre mesi dal trauma (Rothbaum, Foa, Riggs).
Alla fase acuta segue una fase post-acuta, chiamata da Burgess e Holstrom (1983) “della riorganizzazione”, che vede in gioco l’assetto difensivo del soggetto nel processo di ricomposizione post-traumatica: la vittima può mettere in atto strategie di negazione dell’evento (Sutherland e Scherl, 1983), in una sorta di restaurazione dell’assetto di vita precedente al trauma secondo il principio “deve tornare tutto come prima”, o più frequentemente, può manifestare alcune difficoltà, di carattere emotivo, soprattutto nella sfera interpersonale, ad esempio nelle relazioni sociali e nell’ambito sessuale (Feldman-Summers, Gordon, Kilpatrick, Martin, 1983).
Solo nel 20% dei casi si completa la seguente fase della “risoluzione”: gli effetti psichici dello stupro tendono infatti a cronicizzare, o a manifestarsi in disturbi strutturati a lungo termine, come “sindrome del trauma da stupro”.
Il nucleo post-traumatico, inquadrabile come Disturbo post-traumatico da stress secondo la dizione del DSMIV, supera, secondo i dati di Letteratura, il 57% ad un anno ed è soprattutto correlato ad una estrema gravità del trauma, con minaccia di vita alla donna o ad una persona a lei cara, ad una aggressione sessuale protratta nel tempo e all’assenza di supporto medico e sociale (Wirtz PW, Harrell AV, 1987).
Il nucleo depressivo permane sino a molti anni dopo il trauma a diversi livelli di gravità e con diversi quadri clinici ed è comunque associato, nel lungo termine, ad un maggior rischio suicidario.
A lungo termine, gli abusi sessuali sono correlati all’eziopatogenesi di altri disturbi psichici: disturbi d’ansia, dell’umore, disturbi dissociativi, del comportamento alimentare e disturbi da abuso di sostanze.
I criteri prognostici negativi sono, oltre alle variabili individuali della vittima, trattate più estesamente nella sezione riguardante la psicodinamica della risposta, l’uso della forza fisica, con serio pericolo di vita, la ripetizione del trauma nel tempo, l’abuso in ambito familiare, l’assenza di un supporto medico e sociale (Writz PW, Harrell AV, 1987).
Le dimensioni psicopatologiche della risposta al trauma
Abbandonando ora i meri dati percentuali che ci permettono un inquadramento, per così dire, epidemiologico, ma non una comprensione profondamente clinica della risposta alla violenza sessuale nelle sue manifestazioni psicopatologiche, cerchiamo di tracciare un’analisi fenomenologica procedendo per “dimensioni” più che per categorie, per “modi di funzionare in risposta all’evento traumatico”, più che per diagnosi, le quali discenderanno dalle dimensioni psichiche stesse.
Nella reazione allo stupro possiamo individuare due fondamentali dimensioni psicopatologiche: la dimensione depressiva e la dimensione delirante (o psicotica nell’accezione psicoanalitica del termine psicosi).
La dimensione depressiva si esplica in varie forme: sintomi depressivi sono presenti nelle donne vittime di stupro in una percentuale variabile dal 44 al 60 % (Frank, Turner e Duffy, 1979; Frank, Stewart, 1984) e i sentimenti di disperazione e hopelessness possono essere tali da configurare un quadro diagnosticabile come Episodio Depressivo Maggiore (Beck, Ward, Mendelshon, Calhoun, Atkeson).
Ideazioni e comportamenti suicidari e parasuicidari sono presenti dal 2,9 al 27% dei casi nel mese successivo allo stupro e nel 50% dei casi in una valutazione longitudinale da uno a sedici anni dalla violenza (Calhoun, 1981).
Come tratteremo più specificatamente nella sezione dedicata alla psicodinamica della risposta alla violenza sessuale, la dinamica depressiva vera e propria si instaura a partire da intensi sentimenti di colpa, impotenza, inferiorità, vergogna ed autodenigrazione: la nemesi depressiva si struttura sulla implosione dell’aggressività e dell’impotenza, dove il nucleo centrale della colpa si origina dalla mancata risoluzione del conflitto tra giustizia riparatrice e vendicatrice, (conflitto che conduce alla dinamica autolesiva), e la presenza di un Super-Io sadico può alimentare punitivamente la svalutazione e l’autodistruttività.
Esiste una dimensione depressiva che possiamo chiamare “reattiva”, in cui il fondamentale nucleo della colpa non è presente in forma preponderante, ma è invece il sentimento della paura a dominare lo scenario intrapsichico: si tratta di quadri caratterizzati da un grave stato d’ansia, legato a paure e fobie connesse al trauma, con crisi di panico e pensieri intrusivi.
In questi casi, la dinamica sottesa ai sintomi affonda le radici soprattutto in un problema di debolezza dell’Io, in un franoso confine tra mondo esterno e mondo interno, in un intreccio di psichico e somatico (sono infatti presenti frequenti somatizzazioni).
In entrambi i casi, esiste comunque un rischio di comportamenti autolesivi piuttosto elevato e può accadere che questi quadri siano complicati da un concomitante abuso di sostanze, anche di farmaci, a scopo, per così dire, autoterapeutico, evenienza che condiziona un ulteriore rischio di acting-out.
La dimensione delirante, meno frequente, ma, comunque, di non rarissima osservazione, è sottesa da dinamiche di dissociazione e frammentazione dell’Io, con profonde alterazioni del confine “mondo interno-mondo esterno” e dell’esame e/o del sentimento di realtà.
Più frequentemente preesistente, come tratto stabile, sebbene non necessariamente manifesto, della personalità dell’individuo, essa può manifestarsi anche come vera e propria reazione acuta al trauma, specie se di grave entità, ma in questo caso sarà di breve durata, di stampo marcatamente dissociativo, e comunque sottesa da un assetto personologico quantomeno vulnerabile alla dissociazione.
Negli altri casi, si manifesta con quadri che possono variare lungo due percorsi: la contaminazione, da ideazioni dominanti circa rischi di contaminazione a deliri di contaminazione veri e propri, e la persecutorietà, con reazioni paranoidee, anche nei confronti degli operatori, fino a ideazioni persecutorie più strutturate.
Non possiamo a questo punto della trattazione non fare almeno un breve cenno alle questioni etnologiche, che meriterebbero trattazione a parte, e sono tuttora poco note e poco indagate, ma entrano in modo stringente nel determinismo della reazione al trauma della violenza sessuale e nella sua fenomenologia.
Riflessioni relative alla terapia per le vittime di violenza sessuale
Il paziente traumatizzato solleva in genere molte difficoltà diverse, sul piano della comprensione psicopatologica, così come su quello del trattamento. Il gioco delle variabili “trauma” e “personalità” è sempre uguale e sempre diverso: per tutti, sempre e comunque, un intreccio imprescindibile, e per ogni singolo individuo una ed una sola, specifica, interazione da comprendere.
Questo accade anche nel caso della donna violentata dove la variabile trauma è di un tipo specifico, la violenza sessuale, con caratteristiche di specifica “traumaticità” da evidenziare.
Abbiamo cercato in questo lavoro di “rivisitare” le definizioni e i concetti relativi al trauma rispetto alla violenza sessuale, poiché riteniamo fondamentale tendere ad una sintesi della complessa interazione di fattori ambientali ed intrapsichici che contribuiscono all’esperienza del trauma nel caso dello stupro.
Riteniamo inoltre che per raggiungere una tale sintesi l’approccio più utile alla comprensione sia quello psicodinamico, ovvero quello che tiene massimamente in conto le interazioni tra i diversi fattori in gioco per elucidare una dinamica psicoaptologica, in altre parole, quell’approccio squisitamente clinico, che vuole comprendere “cosa è successo” in realzione a come “ha funzionato il soggetto”.
E’ ormai chiaro che il ruolo giocato dai tratti di personalità della vittima è fondamentale nel conferire significati all’abuso subito.
Da un approccio “quantitativo”, basato sull’analisi del solo dato esterno, il trauma, è dunque necessario passare ad un approccio “qualitativo”, che consideri il dato interno relativo ai meccanismi mentali organizzatori delle risposte specifiche al trauma subito (forza dell’Io, maturità delle difese, sviluppo istintuale e così via) e alle conseguenze inerenti la definizione del Sé e il tipo di relazioni oggettuali della vittima.
Questo tipo di approccio ha una ricaduta fondamentale a livello trattamentale, in quanto non mira solo all’essenziale e imprescindibile accoglimento della sofferenza, ma anche ad una sua comprensione profonda; è necessario dunque che avvenga in sede di intervento, quell’operazione di “tessitura”, che nel mito viene svolta dalla stessa Filamela, che tesse l’arazzo con le scene della violenza subita.
Aiutare le vittime a recuperare il proprio “slancio emotivo”, al fine di costruire o ricostruire un’identità separata dal trauma, come afferma Ugo Fornari nella prefazione al libro Vittime di abuso, significa far sì che il soggetto possa ripercorrere, al contrario, la strada che da persona l’aveva reso puro oggetto di violenza.
Solo così, e in questo, seppur con linguaggi differenti, psicoanalisi e neurobiologia, dicono la stessa cosa, è possibile sciogliere il grumo sensoriale del trauma e dare parole che lo trasformano.
Nel mito di Nemesi, Nemesi stessa incarna la giustizia riparatrice, così come la vendetta e l’autolesione, che sono esattamente i sentimenti sottesi alla patologia depressiva che tante vittime di violenza colpisce e per così lungo tempo anche dopo l’evento ed è esattamente la giusta riparazione l’unico obiettivo a cui dobbiamo tendere, sviluppando la terapia come restituzione di identificazione con l’altro e di identità umana.
Se ti tagliassero a pezzetti il vento li raccoglierebbe,
il regno dei ragni cucirebbe la pelle…
e la luna tesserebbe i capelli e il viso,
e il polline di Dio,
di Dio… il sorriso
F. de Andrè
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